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Di Livio Spinolo – “Nino non aver paura di sbagliare un calcio di rigore”: così cantava Francesco De Gregori ma poi capita anche che il problema non sia nemmeno quello. Venerdì scorso allo stadio “Via del Mare” di Lecce, poco dopo la mezz’ora del primo tempo viene concesso un penalty all’Udinese. Il rigorista è Thauvin. Ma la palla se la prende Lucca, 9 gol fino a quel momento in campionato, un bottino di tutto rispetto. E non la molla, come i bambini che hanno un giocattolo e se lo stringono forte perché appartiene a loro e solo a loro. Sì, per il bomber friulano quel rigore è suo e solo suo, al di là delle gerarchie dal dischetto, al di là dei compagni che insistono, al di là del mondo che c’è fuori. Nel suo, c’è solo un pensiero, tirare il penalty e trasformarlo. E così fa. Poi esulta. Da solo. Poi viene sostituito per punizione dopo pochi minuti. Perché il calcio è un gioco di squadra e le regole non puoi scrivertele tu come credi. Eppure non mi viene spontanea la critica nei confronti del centravanti bianconero: ne comprendo razionalmente l’errore ma trovo romantica l’immagine che lo vede così innamorato del gol da inseguirlo a tutti i costi, contro tutto e tutti.
Questo accadeva qualche giorno dopo Atalanta-Bruges, playoff di ritorno di Champions League. Anche qui un altro racconto tutto particolare. Intorno al quarto d’ora del secondo tempo viene assegnato un rigore ai padroni di casa, che sono sotto 1-3 ma che stanno attaccando a testa bassa. C’è bisogno di realizzare quel penalty e poi di fare altre due reti per portare la gara ai supplementari. Difficile ma non impossibile per la Dea, che vanta una manovra offensiva particolarmente incisiva. Il rigorista non è Lookman, eppure dagli undici metri si presenta proprio lui. Senza timore. Ma il tiro viene intercettato dall’estremo difensore dei belgi. La rimonta non parte, né si compie successivamente e la partita finisce così, con i bergamaschi eliminati dalla competizione europea più prestigiosa. A far rumore, più dell’errore, sono state le parole dell’allenatore Gasperini che, senza mezzi termini, ha criticato il proprio calciatore, raccontando di come anche in allenamento la media dei suoi penalty trasformati fosse bassissima e di come, evidentemente, non fosse lui a doversi presentare dagli undici metri. Alla faccia della diplomazia!
Quante sfumature, quanti pensieri, quante emozioni dietro un pallone da calciare a tu per tu con un portiere smanioso di ipnotizzarti!
Poi ci siamo noi che assistiamo alla partita, che viviamo quel momento. Un momento che a volte ti si incolla dentro e non va più via, a formare un ricordo indelebile. Ciascuno di noi ha un rigore che non dimentica, anzi più d’uno spesso. Il 9 luglio 2006 Fabio Grosso ci regalava la Coppa del Mondo al termine della sequenza di penalty, scatenando una gioia irrefrenabile sia sul prato verde che nelle case di una Nazione intera tutta unita e trepidante per i colori azzurri. Ma 12 anni prima, il 17 luglio 1994, sempre in una finale del Mondiale, sempre con epilogo dal dischetto, Roberto Baggio spedì alto il pallone che regalò il titolo al Brasile.
Il bello e il brutto del calcio, il bello e il brutto di un penalty, pochi secondi di adrenalina pura, anche per chi guarda, lo spazio sottile che può separare il trionfo dalla delusione, il sorriso da una lacrima. Già. Ma la canzone di De Gregori prosegue e dice anche “un giocatore lo vedi dal coraggio, dall’altruismo e dalla fantasia”. La fantasia appunto. Quella che Roberto Baggio ci ha regalato in tutta la sua carriera, facendoci divertire e regalandoci scampoli di Bellezza allo stato puro. Che contano assai di più di quel pallone volato alto nel cielo di Los Angeles più di 30 anni fa.